Catatònia. (Proprio con l’accento sulla “O”).

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Un corpo solido immerso in un liquido riceve una spinta verso l’alto inversamente proporzionale a. Non ricordo com’è che andava a finire e non ho voglia di sfogliare Google per controllare se, larga la foglia, stretta la via, alla fine della storia i corpi solidi in questione vissero tutti felici e contenti. Ho dimenticato. Giuseppe Tubi è un personaggio intrigante dell’universo fantastico targato Disney ma è stato ingiustamente obliato anche lui. Non ricordo più perché o se valeva davvero la pena rammentarlo. Ho un vuoto cosmico sistemato dietro le pupille, puntellato dai bulbi oculari, un cuscinetto che ammortizza l’impatto del mio cervello sulla superficie interna del mio cranio. Lo acquistai per corrispondenza diversi anni fa quel vuoto lì, un vuoto molto chic, a prezzo d’occasione, era lì, a pagina 34 del defunto Postalmarket, ricordo la foto dell’articolo pregiato tra quelle di accessori dozzinali eppure imprescindibili come il trinciapolli di acciaio inox e lo smussa calli con l’impugnatura ergonomica. Ho conservato quel vuoto nel cassetto per secoli e adesso lo riesumo, per poterlo indossare alla bisogna, con disinvoltura e dignità. Cosa c’è che non funziona? Dovevo semplicemente sistemare gli interni, ma invece di affidarmi ad un bravo architetto da clichè, con tanto di mocassini e loden per referenza, ho assunto una squadra di sgraziati carpentieri cambogiani senza permesso di soggiorno. Li pago da schifo, in nero, ma sanno fare perfettamente il loro lavoro. Strappare la carta da parati stinta e rovesciare quintali di grumosa vernice bianca scadente sulle pareti lerce del mio vissuto. Una colata di bianco asettico. Avrei voluto scrivere “lisergico”, ma non ne ricordo il significato e avrei trovato troppo umiliante abdicare ad una scelta linguistica dettata dal mero sex appeal di un vuoto significante. (Cosa ho detto?). Mi ritrovo abbastanza confusa dentro questa stanza ostile ed estranea che è la mia casa. Non sopporto di sentirmi ripetere che così non va bene, che basta un filo di trucco, sempre, per reggere l’impalcatura, per mantenere in piedi vigorosamente una facciata rassicurante, la sola che, in barba a tutte le rivoluzioni possibili, nonostante i reggiseni bruciati in piazza e tutte le altre belle parole di circostanza, ci garantisce credibilità e ci fa sopravvivere. Io non ho un bell’aspetto. Non dormo da mesi, ho due canyon sotto gli occhi e paglia bruciacchiata al posto dei capelli. Ho sempre un’aria stravolta, nove volte su dieci, e la decima volta se non è stravolta è goffa e buffa, e qualsiasi intervento estetico sortisce su di me risultati che, al massimo, solo un ottimista nato potrebbe definire, con qualche difficoltà, appena esilaranti. Cerco di rimettermi in carreggiata, di irreggimentarmi ma poi perdo il filo, immediatamente, sapete com’è, ho scarsissima capacità di concentrazione. Eppure oggi sono rimasta quattro ore a fissare stolidamente l’apparecchio deumidificatore, sistemato a metà strada tra me e quel peto di mondo imprigionato dietro lo schermo televisivo. Ho dimenticato di truccarmi e ho dimenticato di comprare il deodorante. Ho dimenticato come si abbinano i colori dei vestiti e non so mai scegliere la giacca giusta. Eppure mi guardo allo specchio e sento che non è grave. Contraddizioni. Un processo degenerativo di regressione dell’anima. Tutto è cominciato quando lui è andato via. Non era nemmeno troppo importante per me, lui, ma la sua presenza, chissà perché, anestetizzava la mia percezione dolorosa del reale, attutiva i rumori sgradevoli, ammortizzava il contraccolpo delle cadute. Non era merito suo, lui era solo un catalizzatore, come la baguette catalitica di Topolino in una sua celeberrima avventura intergalattica, per intenderci. Lui era per me un paio di cuffie o un sistema di amplificazione hi-fi, e quando c’era lui nelle vicinanze era come se ci fosse sempre della buona musica, sempre, in stereofonia. Con lui non era necessario pensare al modo migliore di agire per far funzionare le cose. Andavano e basta, senza timone né timoniere. Il reale si contraeva in una irrazionale comodissima bolla di sapone. La sua assenza mi ha stracciato i timpani, ha reso troppo vivido l’impatto con l’universo circostante. Era troppo universo, troppo insopportabile universo, troppe possibilità, troppi saperi, troppi colori, troppe occasioni e troppa poca lucidità per poter creare delle connessioni logiche, per poter effettuare delle scelte sensate, per poter accettare il divenire, sia nella sua stasi che nella sua vorticosa improvvisa mutabilità. Troppo di tutto,e niente più musica. Per questo ho mandato a chiamare i cambogiani e loro hanno iniziato ad imbiancare. Un secchio di vernice per ogni ricordo, un secchio di vernice bianca, coprente, per ogni tonalità di colore del reale troppo sgargiante per poter essere sopportata dai miei occhi. Ogni tanto mi viene in mente Cioran, anche se non so assolutamente chi o cosa diamine esso sia. Ogni tanto penso al mio catalizzatore, ma non mi tange più nemmeno questo, perché i cambogiani hanno i riflessi prontissimi e, anche se non pago loro i contributi, continuano a svolgere bene il lavoro. Ma ho abusato con la vernice, così sono vittima di estesi episodi di catatonìa, in cui ogni nesso svanisce, il pensiero si annulla, il reale evapora. E’ il mio modo per riposarmi, dal momento che l’insonnia mi impedisce ormai da lungo tempo di dormire come converrebbe. E’ un riposo un po’ pericoloso, un riposo fatto di rimozione e vernice tossica, un sonno della ragione e dell’anima che mi manda in stand by e mi fa dimenticare più del dovuto, da Archimede a Carneade, eureka, chi era costui? Non lo so, non me lo ricordo. Ma ringraziando il cielo prima o poi mi verrà voglia di uscire, di vedere gente, di farmi una birra, di giocarmi la partita.
E per Cioran, Archimede e tutte le altre cose che adesso non mi sovvengono, aspetto solo che mi vada di nuovo di riaccendere il pc e consultare Wikipedia, et voilà, passa la paura.

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